Non è un refuso. È il titolo di un geniale libretto scritto dal linguista, docente e giornalista Andrea De Benedetti. Ognuno dei 27 capitoli esplora alla radice gli errori di grammatica più frequenti degli italiani (un’altro, qual’è, accellerare con due l, un pò, etc). Ma lungi dallo scandalizzarsi, De Benedetti sostiene provocatoriamente che l’errore di grammatica sia un “naturale anticorpo alle incoerenze della lingua, una sacrosanta ribellione all’ottusa e irrefrenabile arbitrarietà di certe regole ... e lungi dall’essere una malattia da curare e di cui vergognarsi, può essere segno della vitalità della stessa lingua, che anziché fossilizzarsi si evolve a furor di popolo.”
L’errore di oggi potrebbe diventare la regola di domani, basta che lo facciano in tanti, sostiene De Benedetti. Perché se lo fanno in tanti, un motivo forse c’è. Un esempio su tutti: chi scrive eccezione con due z commette un errore, ma in teoria ha ragione. Perché il suono della z intervocalica è in effetti lungo (per motivi che risalgono al latino), e la doppia zeta, come si dice oggi, ‘ci sta’.
E in inglese, quali sono gli errori che smetteranno di essere tali a furor di popolo? Forse diventeranno accettabili i famigerati greengrocers’ apostrophes, così chiamati dall’uso indiscriminato e superfluo del genitivo ‘s al posto del plurale sui cartelli dei fruttivendoli e dei negozi in generale. Forse non faranno più scandalo i doppi negativi (I didn’t see nothing), o i pronomi oggetto/soggetto usati a vanvera (you and me, o you and I?)
Se accettiamo il principio di De Benedetti (e di tanti altri illustri linguisti nel mondo) che “l’errore è tale fino a che la comunità dei parlanti non decide il contrario”, ne consegue che le regole di grammatica non sono immutabili ma semplici constatazioni di ciò che diciamo in un certo momento storico, destinate a cambiare con le nuove generazioni.
D’altronde se la lingua si evolve significa che è viva e in buona salute. Con buona pace dei grammar-nazi.
Rosanna Cassano