Nel bene e nel male, Boris Johnson è stato un bel filone per la stampa. Soprannominato BoJo dai tempi in cui era sindaco di Londra, il leader conservatore ha coltivato un’immagine stravagante — spettinato, malfatto — mentre sviluppava una capacità (tragi)comica che offriva materiale di prima qualità per i titoli dei tabloid e qualsiasi tipo di meme.
Come è successo negli ultimi tempi con altri capipartito populisti, questa caricatura (in gran parte costruita) contrastava con la sua infanzia nei collegi e negli atenei più esclusivi del Paese, ma soprattutto con una gestione pubblica costellata di decisioni erratiche, comportamenti censurabili e, senza dubbio più grave, conflitti di interesse, nepotismo e ombre di corruzione. Tuttavia, ben oltre il deterioramento della sua immagine pubblica, ciò che è significativo è il fatto che Boris Johnson sia stato forzato a dimettersi dal suo stesso partito dopo appena mille giorni in carica.
Tra i numerosi motivi che hanno determinato la brevità del mandato c’è una Brexit calamitosa che ha aggravato la tendenza negativa dell’economia globale, o l’infame Partygate, lo scandalo sulle feste private alla quali partecipava gran parte del suo gabinetto nei giorni di lockdown più duro della pandemia.
Proprio in questi giorni si compiono cinquant’anni dallo scandalo che finirà per causare una delle dimissioni più eclatanti della storia della politica mondiale. Fu il 17 giugno del 1972, durante la campagna presidenziale che doveva decidere se Richard Nixon rinnovava per un secondo mandato o se il democratico George McGovern lo avrebbe costretto ad andarsene dalla Casa Bianca. Quella notte il vigilante del complesso di uffici Watergate, dove il Partito Democratico aveva il suo centro di operazioni, chiamò la polizia per avvisare della presenza di un presunto gruppo di ladri. In seguito il quotidiano Washington Post dimostrò che in realtà si trattava di un’operazione di spionaggio progettata da membri del governo e consulenti di Nixon, che alla fine si dimise.
Da allora il suffisso ‘-gate’ viene utilizzato in inglese per indicare uno scandalo politico ma non solo. Quando si attacca dietro a un sostantivo, e il termine che ne risulta diventa popolare e si fissa nell’immaginario pubblico, è difficile evitarlo. Ancora una volta il potere del linguaggio è capace di imporsi a quello di dittatori, re, presidenti o primi ministri.